Dimensioni o categorie? Due approcci a confronto nella psicopatologia evolutiva: Un esempio clinico: "ADHD"
- Miguel Psicologo

- 3 lug
- Tempo di lettura: 4 min

Negli ultimi decenni, la ricerca sui disturbi del neurosviluppo ha prodotto un cambiamento di paradigma: dalla classificazione dei disturbi in categorie rigide, come quelle del DSM, si è passati a considerare dimensioni psicologiche trasversali (come l’impulsività, la disregolazione emotiva, la freddezza affettiva, l’inibizione) che attraversano vari quadri clinici.
Questo approccio dimensionale è particolarmente utile per comprendere le traiettorie evolutive dei disturbi, come nel caso dell’ADHD infantile che può evolvere, a seconda delle caratteristiche personali e ambientali, in disturbi di personalità differenti.
L’obiettivo di questo articolo (come sempre in questo blog) è esplorare i fondamenti di questa visione, che desta un certo grado di acquiescenza tra i ricercatori e i clinici, provare a metterla in dubbio, trovarne eventuali falle e confrontarla con l’approccio categoriale classico, identificando vantaggi, criticità e potenziali integrazioni.
L’approccio dimensionale ed evolutivo
Secondo l’approccio dimensionale-evolutivo, l’ADHD e altre condizioni del neuro-sviluppo (es. lo spettro autistico) non è solo un disturbo circoscritto all’età evolutiva, ma una condizione che può condizionare in profondità lo sviluppo della personalità.
In quest’ottica, non si tratta solo di etichettare un disturbo, ma di osservare come alcune caratteristiche psicologiche di base, come l’impulsività o la disorganizzazione, si consolidino nel tempo fino a configurare assetti psicopatologici adulti.
Ad esempio, bambini con ADHD che presentano disregolazione emotiva e difficoltà di gestione degli impulsi, soprattutto se cresciuti in contesti traumatici o disfunzionali, mostrano una maggiore probabilità di sviluppare un disturbo borderline di personalità. Al contrario, profili ADHD caratterizzati da freddezza emotiva, mancanza di empatia e tratti oppositivo-provocatori sembrano associarsi più frequentemente allo sviluppo di disturbi antisociali in età adulta.
L’intervento precoce, orientato su queste dimensioni (e non solo sui sintomi), può essere decisivo per modificare le traiettorie evolutive e prevenire il consolidarsi di disturbi più gravi.
Il modello DSM: punti di forza e limiti
Il modello categoriale, basato sul DSM, ha avuto storicamente il merito di offrire un linguaggio condiviso per la diagnosi e il trattamento dei disturbi psichiatrici. Le categorie diagnostiche (come il disturbo borderline o antisociale) hanno permesso lo sviluppo di protocolli terapeutici, come la DBT per il borderline, e hanno favorito la standardizzazione della ricerca clinica.
Tuttavia, questo approccio mostra diversi limiti. Molti disturbi presentano comorbidità elevate e eterogeneità interna, cioè sintomi molto diversi tra soggetti con la stessa diagnosi. Il cluster B dei disturbi di personalità ne è un esempio: individui diagnosticati come borderline o antisociali possono avere storie e tratti psicologici profondamente diversi.
L’evoluzione recente del DSM-5 e dell’ICD-11 ha cercato di ovviare a queste carenze, introducendo modelli ibridi che coniugano categorie diagnostiche e dimensioni di funzionamento (es. impulsività, empatia, regolazione affettiva).
Le traiettorie ADHD: i dati empirici
Numerosi studi longitudinali confermano che il decorso dell’ADHD non è uniforme. Le traiettorie evolutive possono essere molto diverse, in base alla presenza o meno di caratteristiche aggiuntive (es. disregolazione emotiva) e fattori ambientali.
Ad esempio:
ADHD persistente con disregolazione emotiva: è associato a maggiori tassi di dropout scolastico, arresti e disturbo antisociale di personalità. Barkley et al. (2006) riportano che circa il 39% dei soggetti ADHD persistenti sviluppa un disturbo antisociale in età adulta, contro l’8% del gruppo di controllo.
ADHD con sintomi in diminuzione (declining): ha un’evoluzione più favorevole, spesso simile a quella dei coetanei non clinici (Pingault et al., 2011).
Studi longitudinali su campioni femminili (O’Grady & Hinshaw, 2023) indicano che bambine con ADHD e storie familiari avverse mostrano un rischio elevato di sviluppare sintomi borderline in adolescenza.
Inoltre, l’analisi di tratti come la disregolazione emotiva precoce, combinata con fattori ambientali negativi, può predire con buona precisione lo sviluppo di disturbi del comportamento o personalità.
Le criticità dell’approccio dimensionale: cosa può salvare il categoriale?
Nonostante i suoi punti di forza, l’approccio dimensionale presenta anche diversi limiti clinici e scientifici:
Difficoltà nella comunicazione clinica: la descrizione dimensionale può risultare meno immediata e condivisa tra operatori.
Assenza di cut-off precisi: può rendere incerto il momento in cui intervenire e con quale intensità.
Scarso supporto normativo e giuridico: molte decisioni (es. certificazioni, tutele legali, accesso a servizi) si basano su categorie ufficiali DSM/ICD.
Rischio di dispersione diagnostica: focalizzarsi su tratti isolati può far perdere la visione d’insieme del disturbo.
Verso una clinica integrata: dimensioni e categorie
L’approccio dimensionale ha il pregio di vedere l’individuo nella sua continuità evolutiva, favorendo interventi precoci e più mirati. Tuttavia, le categorie diagnostiche rimangono utili per la pratica clinica quotidiana: aiutano a comunicare con colleghi, orientare trattamenti specifici, accedere a risorse sanitarie e coordinare percorsi terapeutici.
Una visione integrata propone di:
Valutare precocemente le dimensioni transdiagnostiche (impulsività, regolazione emotiva, empatia, esecutivo) insieme alla storia traumatica.
Monitorare il decorso dei sintomi e delle funzioni nel tempo.
In adolescenza e in età adulta, integrare la diagnosi categoriale con i dati dimensionali per formulare una diagnosi più sfumata e scegliere trattamenti più efficaci: ad esempio, un borderline con forte disregolazione emotiva potrà beneficiare della DBT, mentre un soggetto con tratti freddi e antisociali potrebbe necessitare di interventi mirati sull’empatia e il riconoscimento dell’altro.
Conclusione
Le categorie diagnostiche del DSM rappresentano una semplificazione necessaria, ma spesso insufficiente per cogliere la complessità delle traiettorie psicopatologiche. L’approccio dimensionale, che guarda all’individuo nei suoi tratti stabili e nella sua evoluzione nel tempo, consente una comprensione più fine, predittiva e clinicamente utile.
Nel caso dell’ADHD e della sua evoluzione, i dati suggeriscono che una diagnosi precoce e un’attenzione ai tratti specifici (come la disregolazione o la freddezza affettiva) possano fare la differenza. Solo un’integrazione consapevole tra dimensioni e categorie permette oggi di costruire una psicopatologia evolutiva realmente utile alla clinica.
Riferimenti bibliografici
Barkley, R. A., Fischer, M., Smallish, L., & Fletcher, K. (2006)
Beauchaine, T. P., & McNulty, T. (2013)
Haslam, N., Williams, B., Prior, M., Haslam, R., Graetz, B., & Sawyer, M. (2006)
O'Grady, S. M., & Hinshaw, S. P. (2023)




Commenti